Cosa c’è dentro un sacco di caffè tostato? Le miscele per espresso presenti in commercio comprendono spesso un misto di chicchi assortiti tra diverse varietà, coltivatori e paesi d’origine. Va da sé che il concetto di varietà botanica risulta piuttosto sfuggente. Eppure il gusto del caffè in tazzina è un effetto combinato del terroir, ossia della zona di provenienza, e – soprattutto – della cultivar, ovvero della base genetica.
È probabile che in futuro, grazie alle normative europee in fatto di tracciabilità alimentare, sarà più facile riconoscere la composizione delle diverse miscele in commercio: in attesa di un quadro di riferimento più chiaro per l’identificazione varietale proviamo a tracciare una sorta di mini-patente botanica del caffè.
Il caffè fa parte delle Rubiaceae, famiglia di Angiosperme cosmopolita che ha la sua patria d’elezione ai tropici, caratterizzata da foglie semplici e fiori ermafroditi. Il genere Coffea comprende un centinaio di specie di cui solo una minoranza è commercialmente rilevante, più nello specifico Coffea arabica, canephora – sinonimo di Coffea robusta – e Coffea iberica.
Se per gamma varietale si intende, in senso generale, l’insieme delle diverse caratteristiche espresse da una specie, esiste anche un’accezione più restrittiva del termine varietà, comunemente usato per indicare un determinato tipo genetico e spesso una specifica cultivar, ossia una varietà coltivata e ottenuta attraverso tecniche di miglioramento genetico, concetto da cui si differenziano a loro volta le nozioni di ibrido ed ecotipo.
Tecnicamente il frutto del caffè si definisce ciliegia o drupa, è cioè un frutto carnoso contenente due semi di forma semisferica: i chicchi. Anche se nelle piantagioni non supera normalmente i due metri e mezzo d’altezza, in natura la pianta può raggiungere e superare gli otto metri.
Foto di Juan Camilo Trujillo